CONTROCORRENTE PER CICCIO (ricevo e pubblico)


CONTROCORRENTE PER ONESTA’

Mentre mi accingo a scrivere, mi par di udire le voci di chi si ergerà a paladino della Giustizia e di verità assolute, di chi si ammanterà di sacralità giuridica o giustizialista, e commenterà questa mia profonda quanto spontanea considerazione.
Lo faccio per rispetto nei confronti di un uomo che ha rappresentato, per tanti poliziotti, un simbolo Antimafia negli ultimi trenta anni; perché oggi ci sarebbe stato qualcuno che mi avrebbe spinto a farlo. Lo faccio per tutti i morti che ci siamo lasciati dietro in un Paese violentato dalla Mafia e dalla corruzione; per le lunghe notti che ho trascorso, in attesa di un “rientrate” che non arrivava mai; perché penso così di dar voce a tanti che fiato non hanno più.
Lo faccio per quella mano distesa a Genova, pronta a stringere altre mani, in una delle prime udienze nel processo per i fatti occorsi alla Diaz, e mai ricambiata; per i silenzi che quest’uomo ha affrontato e sopportato per tredici anni e per quelle nocche, troppe volte serrate.
Lo faccio per ciò che ho percepito dalle azioni costanti di un dirigente che “ha operato senza risparmio di energie, non dando disposizioni da dietro una scrivania, ma per strada”; onesto nell’esercizio delle sue funzioni.
Parlo di Francesco GRATTERI. “CICCIO”, per i più vecchi mobilieri, l’uomo che spopola sul web per essersi esposto in pubbliche dichiarazioni subito dopo i tragici fatti della scuola Diaz.
Ho voglia così di raccontarvi dell’abile investigatore, del suo puntuale intuito nelle vicende giudiziarie più clamorose e conclusesi brillantemente sempre con l’arresto di latitanti e mafiosi eccellenti. Del coraggio che sapeva infondere in chi aveva la fortuna di far parte delle squadre che ha diretto durante i suoi mandati, della passione e dell’onestà intellettuale con la quale ha affrontato questa -quanto mai- discussa professione. Del suo carattere burbero ma deciso.
Comprendo però che rischierei di descrivervi solo uno spicchio della sua vita.
Vorrei così che vi soffermaste per un momento sul termine “professione poliziotto”, cercando di valutarlo nella sua accezione più ampia, riflettendo sul senso morale e giuridico che dovrebbe accompagnare ogni nostra azione civile in un’epoca moderna, indipendentemente dallo status rivestito da ciascuno. Indipendentemente da quanto faccia un’Istituzione per rendere un professionista ogni singolo elemento che la compone; indipendentemente dalla passione e dall’identificazione più o meno forte di ciascuno con la propria Istituzione. Indipendentemente dai controsensi che talvolta il ruolo impone.
L’ho fatto tante volte nella vita. E continuo a farlo per me e per tanti come me che hanno scelto “la professione” del poliziotto e non “il mestiere” del poliziotto, ma anche per tanti come lui, che si sono ritrovati prepotentemente sbattuti in prima pagina, prima di ogni giusto processo, prima di ogni giusta sentenza, col pensiero forte che mi attanaglia di quanto, questo abbia potuto incidere sugli accadimenti giudiziari successivi. Lo faccio per la sorte che sta toccando ad uomo dopo il giudizio della Suprema Corte, per le considerazioni che si stanno leggendo su più testate giornalistiche dopo la negazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali; quasi che non si trattasse più di un condannato da rieducare, com’è sancito dalla nostra Costituzione, ma di un uomo del quale la società potrebbe fare volentieri a meno. Mi chiedo fin dove riuscirà (e se mai inizierà) la sua opera di rieducazione nei confronti di qualche “eccellente” condannato per mafia.
Scrivo così per insegnare a mio figlio a credere e a sognare e ad appassionarsi nel lavoro, nelle amicizie, come negli amori. A trovare il coraggio nel percorrere sempre obiettivi etici nella vita che sceglierà; a essere consapevole che qualunque sia la scelta, fatta per un fine alto, nell’interesse collettivo e non del singolo, nell’interesse del Paese e non di uno Stato che assiste inerme alla decadenza di una Giustizia sempre più anemica, può comportare spesso una “rottura”: col sistema-paese, con la morale comune, con verità troppe volte distorte da false rappresentazioni, con la politica dei mal Governi. Perché allora sì che ha un senso, la vita.
Mentre non riesco ad arginare quell’inquietudine, se penso a come sia facile per qualche organo di stampa dissolvere la nostra storia. La storia del nostro Bel Paese e della Polizia di Stato. La storia di un’Italia cambiata, d’italiani avvolti da sfiduciata rassegnazione, che percepiscono le difficoltà nell’esercizio reale, tempestivo, costante della “forza” da parte dello Stato, delle sue Istituzioni… o probabilmente sarebbe più giusto dire “da parte degli uomini che le compongono”.
Ora consentitemi almeno questo: una sofferta, empatica considerazione, spinta dai momenti difficili che questo Paese sta affrontando, che partono sì dalla politica ma che toccano il vissuto di tante famiglie, di tante “belle persone”. E’ questo un periodo che è percepito con disagio, paura per il prossimo futuro, destabilizzante anche per chi è stato abituato –a schiena dritta- ad affrontare le avversità della vita, ma questo non deve poter consentire a tanti di parlare con faciloneria, con toni di disprezzo verso le Istituzioni e verso gli uomini che rappresentano, o hanno rappresentato degnamente, il nostro Stato. Che dolore prende quando a farlo sono proprio gli uomini che dovrebbero rappresentarlo, in pubblici consessi, in piazze virtuali, in salotti ciarlieri. Ecco perché penso a ciò che in questi anni mi hanno lasciato i tanti Franco, Gilberto, Antonio, Francesco, Vittorio. La sobrietà e la correttezza nell’assumersi anche il ruolo di indagati, per tanti di loro anche il protagonismo che avrebbero voluto evitare dopo la condanna.
Un pensiero lo rivolgo pertanto ai tanti che hanno sacrificato la vita per il nostro Paese ma anche a tutti quelli che si sono sacrificati e continuano a farlo tutt’oggi, in silenzio, senza avere un posto in primo piano, senza pubblici riconoscimenti, portatori di valori autentici, difesi ogni giorno con serietà nel lavoro e costanza, nel rispetto di diritti umani garantiti.
Ed ancora: per quanto mi sarà possibile, nel rispetto del ruolo pubblico che rivesto, non consentirò ad alcuno di sporcare l’onesto vissuto di tanti operatori della Sicurezza, di quelli che hanno patito l’Antimafia sulla propria pelle. Non permetterò che la memoria di un Paese venga dissolta da parolai da ultim’ora.
Per questi motivi sono io che chiedo scusa a Franco GRATTERI, per averlo ricordato in questa lettera, per aver anch’io avvertito oggi “Il bisogno di tutelare la cosa alla quale ho sempre attribuito un valore assoluto e di doverlo fare per me e per tutti quei poliziotti per bene con i quali ho avuto la fortuna e l’onore di lavorare: è la mia dignità”. Di donna e di poliziotto.




Commenti

  1. sono una semplice cittadina siciliana e anche io stò con Ciccio e con Gilberto. Da parte mia solo affetto per Loro. Vitalba

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